“Una cosa divertente che non farò mai più” (cit.) o Umiliati e offesi.

Ho partecipato alla prova preselettiva del concorso indetto dal Ministero dei Beni Culturali (per gli amici MiBACT) per 1052 posti per assistente alla vigilanza. Cioè, in parole molto misere, per fare il bidello nei musei statali.  IMG_20200113_114311

Inizialmente pensavo di raccontarlo secondo lo stile di Ironica, prendendo in prestito molto, ma molto immodestamente, il titolo da David Foster Wallace.

Poi sull’argomento ho letto in giro resoconti sedicenti ironici, scarsamente divertenti e scritti così così, e quindi ho pensato che fosse un inutile aggravio aggiungerne un altro al mucchio.

Anche perché la vicenda ha preso una piega inaspettata, a causa della frequentazione di alcuni gruppi su Facebook, un calderone eterogeneo di anime inquiete dalle mille voci.

Per scopi puramente strumentali (volevo informazioni su come organizzare la trasferta), poco prima di Natale mi sono iscritta a un paio di gruppi di concorrenti e simili (parenti e simpatizzanti).

Fino a che, prima dell’inizio delle prove, i post vertevano su problemi da risolvere, dubbi di logica, calcoli che non tornavano e consigli su come arrivare alla Fiera di Roma, tutto è filato abbastanza liscio. Nei limiti del funzionamento dei gruppi non moderati, in cui la gente scrive ma non legge, e quindi si ripetono decine di post identici ogni giorno. Però è anche grazie a queste reiterazioni che ho potuto ripassare quella matematica che non vedevo dagli anni ’70, e ho perfino imparato qualche nozione di calcolo combinatorio. Lo scambio reciproco di suggerimenti e sostegno è stato (spero anche per gli altri) utile e fruttuoso.

Fine dell’idillio.

Già dalle prime sessioni, quando hanno iniziato a trapelare notizie sulle domande oggetto della prova, sono montate le polemiche. Qualsiasi parametro che vi viene in mente poteva essere motivo di lite. Chi aveva lasciato il cellulare al guardaroba (come richiesto dall’organizzazione) contro chi se lo era tenuto in tasca; i primi ad aver sostenuto la prova contro quelli degli ultimi giorni; quelli che si potevano permettere di alloggiare a Roma (io sono una di quelle riccone privilegiate) contro chi affrontava viaggi notturni della speranza, su torpedoni e tradotte; i fortunati concorrenti di Roma contro il resto del mondo, proveniente da lande poco, mediamente e molto lontane; le mamme allattanti contro gli sprovvisti di prole; i diplomati contro i laureati (senza distinguere tra vecchio e nuovo ordinamento, mi pare); i giovani contro i vecchi; i lavoratori contro i disoccupati. Credo che ci sia stato anche il momento dei belli contro i brutti, ma non ci giurerei. Mi fermo perché mi sto annoiando da me medesima mentre scrivo, figuriamoci cosa potrebbe essere leggerlo.

Ma l’aspetto che mi ha maggiormente turbato è l’ostilità manifestata, anche con una certa violenza verbale, nei confronti di chi testimoniava la facilità delle domande somministrate, in confronto a quelle che abbiamo affrontato nelle esercitazioni.

L’accusa è stata “mancanza di umiltà”. Chi pensa che la domanda su quale romanzo (tra quattro proposti) sia stato scritto da Italo Calvino, sia elementare, e magari manifesta una certo ottimismo sull’esito della prova, non lo deve dire, perché commette un grave peccato di presunzione e, soprattutto, perché fa dispiacere a chi invece non possiede questa nozione. Ci resta male, ma non perché si rende conto delle sue mancanze, no, perché invece qualcun altro lo sa!

umiltà

Sul perché i concorsi li dovrebbero vincere gli ultimi e non i primi. Per simpatia!

Sembra quasi che l’ignoranza sia un valore da ostentare, e non una lacuna da colmare. A chi si lamentava con molta spavalderia e senza alcun rammarico per l'”assurdità” del quesito su un “certo” Francesco Baracca, di cui qualcuno vagamente ricordava il nome solo per una via cittadina (meglio di nulla), ho osato (sventurata) rispondere così.

modestia e ignoranza commento

Lascio all’immaginazione di chi legge il tono (e la grammatica) delle risposte.

Tralascio i gustosissimi commenti sull’opportunità degli argomenti in oggetto della prova. Gente che, smarrita (come me, del resto) di fronte alle divisioni a due cifre, si lamentava perché non “dobbiamo mica entrare al CERN!” (Giuro, uno l’ha scritto!).

Per finire, ribadisco il consiglio non richiesto di recuperare le opere di Nanni Loy, un altro personaggio, che, nominato in una domanda di cultura generale, è stato portato ad esempio come assurdo e misterioso oggetto non identificato.

La morale di tutto questo è che io non sono umile per niente, e che i concorsi sono come i figli: vanno fatti da giovani.

 

 

N.B. nel momento in cui scrivo, i risultati della prova non sono ancora usciti e, per motivi di ordine logistico e di pigrizia, spero di non averla superata. 

Saluti di passaggio.

Quest’anno ho imparato una cosa nuova.

I motociclisti quando si incontrano sulle strade si salutano. Anche se non si conoscono, intendo.

Io non lo sapevo. Pensavo che fosse già un’usanza bizzarra lo strombazzamento sull’autostrada del Sole, negli anni ’70, quando con la 128 blu andavamo in vacanza in Calabria.

Capitava di incrociare altre autovetture targate FI. All’epoca le targhe indicavano chiaramente la provincia, ora bisogna sforzarsi perché è scritto piccolo e non sempre c’è.

Insomma noi bambini eravamo tutti eccitati per questo straordinario incontro, così lontani da casa, e mio padre, per assecondare il nostro entusiasmo, usava il clacson per salutare i concittadini in trasferta. Che poi magari era solo la targa fiorentina, ma a noi questo non importava molto e salutavamo agitandoci con infantile ardore dai finestrini (chiusi).

Anche dai natanti la gente saluta. Per esempio ad Amsterdam i passeggeri sui battelli agitano affettuosamente le mani verso i passanti sulla terraferma e sui ponti. Chissà come mai.

saluto moto

Esempio di saluto bi-digitale senza guanti.

I motociclisti invece, siccome non è prudente che facciano gesti inconsulti, alzano appena due dita della mano sinistra, quando si incontrano nelle direzioni opposte. Come nel segno di “vittoria”. Oppure come quando si chiedeva il permesso di andare al gabinetto.

I più ardimentosi, o più espansivi, sollevano la mano dal manubrio.

Quelli che invece procedono nella stessa direzione, superandosi, alzano la gamba destra.

All’inizio pensavo che soffrissero del mio stesso problema, un intorpidimento della parte inferiore del corpo, a causa del sistema muscolo-scheletrico-circolatorio compresso dalla posizione e dal sellino. Temo di non essere nelle condizioni fisiche ottimali per apprezzare tutta questa libertà e vento tra i capelli (metaforicamente parlando) per più di un’ora. Però trovo divertente il senso di appartenenza, e saluto anch’io, in qualità di passeggera indolenzita.

Mi è stato anche spiegato che chi va in scooter non conta, quelli non vanno salutati. Io però un occhiolino di solidarietà glielo farei.

Mala tempora currunt.

C’è una scena in “Io e Annie” di Woody Allen in cui la madre porta il piccolo Alvy Singer dal dottore perché è diventato depresso e indolente, e alla domanda del medico “Perché sei depresso Alvy?”, il bambino risponde “L’Universo si sta dilatando” e la madre arrabbiata “Ma sono affari tuoi questi?”. *

Ecco, attualmente io sono Alvy Singer.

Elenco delle cause di ansia in ordine casuale: il futuro, il clima (caldo, freddo, pioggia, neve, vento), le deviazioni (di qualsiasi tipo), Donald Trump, le scadenze e gli orari, la Borsa, l’assemblea di condominio, la malattia di mia madre, il razzismo, il sessismo, il finto buonismo, il vero cattivismo, i ragazzi nella grotta in Thailandia, Kim Jong-un, gli ingorghi, i ritardi, la burocrazia, il rossetto che sbava, i migranti che affogano, le massaie che non mettono il divisore sul nastro delle casse al supermercato, C. che non risponde al telefono, C. che viaggia in aereo e in elicottero, aspettare l’autobus, aspettare qualsiasi cosa, fare la coda, ritirare i risultati degli esami medici, le armi, le scarpe non intonate alla borsa, l’attuale Governo.

E così, quando mi si parano davanti tutte affastellate insieme, se riesco a chiedermi “Ma sono tutti affari tuoi, questi?” rispondo “Sì, tutti. Tutti”.

Il titolo, per i non avvezzi al latino, si traduce in toscano popolare con “L’è maiala”.

*Qui c’è la scena completa.

Volete venire a casa mia?

“C’è una casina piccola così…”

Sono entrata nel fantastico mondo delle locazioni brevi e ho aperto la porta al mondo.

Cliccate QUI e cominciate il viaggio.


Casa 42, bilocale nel centro storico.

Bologna, Emilia-Romagna, Italia

Perché 42? “È la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto” (*) ed è anche il numero di metri quadri dell’appartamento. La posizione è tranquilla ma adatta a chi cer…

Cinquanta sfumature di fango.

In occasione del cinquantesimo anniversario, ho ripescato il raccontino di una bambina che ha vissuto l’Alluvione.

(Vabbè sono io, non volevo far sapere quanto sia vecchia).

“Mi svegliai d’improvviso, con i pallidi spiragli di luce che filtravano dalle stecche degli avvolgibili. Me li facevo sempre lasciare dalla mamma la sera, perché dovevo controllare gli occhi. Avevo paura del buio ma soprattutto avevo paura di diventare cieca. Così prima di addormentarmi facevo le prove chiudendo alternativamente l’occhio sinistro e poi il destro, e poi lo rifacevo… e se mi svegliavo durante la notte anche il più debole segnale del lampione sulla strada bastava per rassicurarmi… Destro, sinistro.. ci vedo.

Quella mattina la luce era grigia.

Sentii un gran tramestio nella casa e mi alzai. Aprendo la porta della camera vidi il corridoio ingombro di mobili non nostri, qualcuno che mi parve familiare ma non troppo, e poi mia madre.

La mia mamma aveva l’aria spettinata e indaffarata, il viso giovane e preoccupato.

-Che cosa è successo? -Si è allagato l’appartamento del portiere e portano i mobili su da noi.

Immaginai un rubinetto dimenticato aperto durante la notte, pensai che il portiere era vecchio e anche sua moglie, ed erano proprio distratti.

Andai in bagno per lavarmi la faccia appiccicosa di sonno e detti un’occhiata fuori dalla finestra.

Quello che vidi fu la più grande e inaspettata e meravigliosa piscina che io avessi mai visto! Il cortile dei miei giochi… campana, nascondino, mondo, dame e cavalieri e tutti quegli altri stupidi giochi divertenti… era interamente riempito di acqua, acqua, acqua!

auto

Doveva essere stata una notte di distrazione collettiva, universale, totale… un tripudio di rubinetti gocciolanti che avevano versato tutta quell’acqua nelle vasche, nei lavandini e infine sui pavimenti delle case, e giù sui pianerottoli e lungo le scale fino alle strade e nel mio cortile! Dentro le onde verdi e gialle capitombolavano e si urtavano tra di loro come testuggini di metallo, le automobili parcheggiate e pensai che dovevano essere tutte bagnate dentro, e chissà che fine avevano fatto i cagnolini con la testa dondolante, e i cuscini all’uncinetto, e tutti quegli orribili ammennicoli che adornavano le automobili di quell’epoca.

nafta

Però c’era una cosa che non capivo: quelle macchie nere galleggianti che si spandevano e ondeggiavano, come le gocce di olio nella minestrina, che se provi a bucarle e tirarle, quelle si muovono, si dividono e scivolano via dal cucchiaio.

I danni della nafta furono evidenti ben presto, sulle cose e sulle case, e le immagini delle opere devastate divennero il simbolo di quel disastro. Ma per me Giotto era quello sulla scatola delle matite che disegna una pecora su un sasso, Cimabue quel signore in piedi che lo guardava, e la portata dell’evento per il momento mi sfuggiva a pieno.

ponte-vecchio

Corsi di là saltellando per partecipare a questa novità straordinaria. Erano tutti in movimento e parlavano sempre, ma avevano le facce scure. Guardavano giù verso le scale. Mia madre piangeva seduta in cucina con le spalle alla finestra, mentre fuori continuava a piovere. La mamma piange? Ma perché piange, papà? Anche Michele piange ma quello è un bamboccio di nemmeno due anni, e poi Federico che ne ha tre che corre in mezzo alle gambe della gente coi suoi urletti, urla forte per sentire…

Allora guardai anche io, riuscii a sporgermi un po’ dalla porta di casa, sul pianerottolo pieno di gente. L’acqua stava salendo su, scalino dopo scalino, e sarebbe arrivata anche dentro la nostra casa. Dovevamo salire anche noi, portare via le cose anche noi come il portiere; la sua casa era piena di acqua fino al soffitto e lui aveva la faccia molto triste.

Sentivo che sarebbero stati giorni esaltanti.

I miei genitori e gli altri adulti sembravano un po’ arrabbiati con quelli che erano partiti la mattina molto presto, perché non ci avevano avvertito che il fiume era così pieno di acqua che non ci stava tutta dentro. Ma io ero così contenta di fare colazione sulle scale con le mie amiche Ilaria e Maria! C’era un fornelletto da campeggio, su cui veniva scaldato il caffellatte per noi bambini, peccato che Marilena non fosse lì con noi, scommetto che si sarebbe divertita tanto anche lei.

Un gioco magnifico, il “facciamo che eravamo alluvionati”.

Poi però anche per me giunse il momento del dramma.

La mia famiglia venne ospitata da quelli del quinto piano, ma fu deciso che io, per motivi di spazio, da brava bambina grande e assennata, avrei passato la notte nell’appartamento di fronte, presso i due anziani coniugi che vi abitavano. Lui era generale e lei sarebbe stata poi la maestra di uno dei miei fratelli (quello piagnone). Erano enormi e uguali tra di loro. Somigliavano a due ippopotami, anzi, più ci penso e più mi convinco che fossero proprio due ippopotami; erano lievemente sorridenti (ma troppo poco sorridenti per un bambino) ed erano troppo alti, troppo grossi per me.

uffizi

E mentre col cuscino tra le braccia attraversavo riluttante il pianerottolo del quinto piano la sera di quel 4 novembre 1966, il dramma dell’alluvione scosse nel profondo la mia consapevolezza di bambina, e di lì a poco lo ripercorsi in senso inverso in lacrime gridando -Voglio la mia mamma!

Appena le acque si ritirarono, ci trasferimmo dai nonni in un’altra città, finché la nostra casa non fosse stata di nuovo abitabile. All’inizio non fu divertente. Federico ed io fummo iscritti a un asilo privato, ci venivano a prendere le suore col pulmino ma non ci piaceva. Mio fratello tirava calci e gridava, e io non volevo fare il riposino con la testa appoggiata sul banco; l’unica cosa bella di quel periodo, a parte gli stivaletti bianchi che mi comprò il nonno, fu che ci ammalammo tutti e tre di morbillo per Natale e così smettemmo di andare all’asilo dalle suore.”

P.S. non ricordo dove abbia trovato le foto, se qualcuno le riconosce sarò lieta di aggiungere i credits.

Dispar condicio

Ho bisogno di uno spazio tranquillo per ragionare su una certa cosa. Quale posto più accogliente del mio blog?

Nel gruppo di Facebook, che carinamente l’amica Rossa mi ha chiesto di amministrare con lei, si è scatenata una polemica sull’imparzialità della moderazione applicata su certi commenti.

Il gruppo ha come tema centrale la lingua italiana, o meglio, gli errori e gli orrori che si leggono e si sentono in giro. Un tema neutro, uno potrebbe pensare. Sbagliato. La lingua è anche molto politica e, se si vuole (e sottolineo se), offre facili appigli a dichiarazioni, battute, esternazioni al limite dell’insulto.

E questa è la premessa.

Ora si dà il caso che, come molte altre persone, perfino io abbia delle preferenze in politica. O meglio, delle s-preferenze (so che non si dice, ma qui sono nel mio blog e scrivo quello che mi pare). È facile quindi capire che di fronte alla battuta malevola su uno strafalcione linguistico di Salvini (tanto per fare un esempio) non mi faccia né in qua né in là, anzi, se sono di buonumore mi scappa pure un “mi piace”. Questa azione apparentemente semplice e innocua, viene registrata e giudicata dagli ipotetici (sia ben chiaro, è una storia romanzata, questa) sostenitori filo-leghisti (o di destra, o di… che ne so. Magari sono solo scassamaroni patentati).

I quali poi notano (forse hanno un quadernino nero in cui prendono appunti) che la stessa reazione condiscendente non si ha quando insulti (e per me idiota è un insulto, non so per voi), battutine stizzite e spesso gratuite, vengono rivolte verso altri personaggi di altre correnti politiche.

È vero. Io non sono imparziale. Io non sono equidistante. Per me non sono/siamo tutti uguali. Sono una che sceglie da che parte NON stare, perché l’imparzialità è di chi non ha opinioni o di chi, ipocritamente, finge di non averle.

Se fossi un Giudice sarebbe un problema, ma non devo decidere della vita e della morte di nessuno. Quindi continuerò ad avere delle opinioni e a essere di parte. E se non sono dalla parte che piace agli altri, pazienza. Essere popolare non è mai stato uno dei miei obiettivi.

E ora beccatevi pure la canzone.

E poi ti dicono tutti sono uguali

tutti rubano alla stessa maniera

ma è solo un modo per convincerti

a restare in casa quando viene la sera.

Abracadabra

In seguito a un curioso messaggio privato che ho ricevuto due giorni fa, penso che sia opportuno precisare che questo non è il blog di una sensitiva (sensibile sì), una medium o una paragnosta di qualsiasi genere.

Non sono in grado di vedere il futuro, di dare indicazioni su scelte amorose o finanziarie. Non so nemmeno prevedere chi vincerà “L’isola dei famosi”.

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Lady Melisandre, lei sì che fa miracoli.

Non posso cambiare il corso della mia vita, figuriamoci quella degli altri, non so riportare in vita i morti, e nemmeno capire come certe persone riescano a condurre una normale vita in autonomia, se dimostrano di non capire ciò che leggono.

Con tutto ciò, ringrazio chi si affiderebbe a me per risolvere problemi personali e delicati. Grazie davvero, vorrei potervi aiutare, perché in fondo nutro per il genere umano una forma di solidale affetto. Anche se spesso vi vorrei picchiare, tutti.

La stagione dell’amore viene e va. E le altre?*

*Questo post è stato scritto e pubblicato nel gennaio del 2007. Non ricordo se si parlasse di riscaldamento globale, ma evidentemente ero già in allarme.
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Fa caldo, il deserto avanza e non si sa più dove metterlo. La gente è contenta, si mette la giacchettina invece del cappotto, pensa già alle vacanze, come se fosse una questione di temperatura e non di calendario. Qualche giorno fa in TV intervistavano alcuni cittadini milanesi, gioiosi per l’inconsueto clima. Ce ne sarà stato uno che mostrava un certo fastidio, uno solo. A me il caldo non piace. L’estate è da oziosi, per gente senza fantasia. Cerco l’inverno tutto l’anno e che fa? non arriva? salta il turno?

Posso anche soprassedere sul fatto che non posso indossare i miei maglioncioni a collo alto, ma gli effetti sulla flora e sulla fauna mi preoccupano. Gli orsi non vanno il letargo. I ghiacci si squagliano. Gemmea l’aria. Anacronistiche fioriture. Roba da dover riscrivere tutto il Sesto Caio Baccelli.

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Ma è ovvio che sia così. Siamo beati inquinatori automuniti, troppo pigri e stupidi per capire che tutti avremo la fine che molti si meritano. Però andremo al mare a marzo, impagabile vantaggio.

L’effetto serra ci uccide
ma noi siamo contenti,
coi nostri vestimenti
leggeri,
e i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
Coglione.

Sorry Business

L’inizio di questo 2016 (ammesso che ce ne possa essere un altro) non è stato dei più gioiosi; fin dai primi giorni è stato caratterizzato da partenze definitive, piene di mai più da metabolizzare, in equilibrio tra distanza e coinvolgimento, quel tanto che basta per poterle affrontare, senza però riuscire a non pensarci.

Il tema del lutto mi ha fatto venire in mente che, durante la visione di una serie TV (la massima forma di riferimento culturale per me, al momento), mi sono imbattuta in un curioso avviso, prima dell’inizio degli episodi, che non avevo mai visto.

La serie si chiama Glitch, e parla di morti che tornano dalle tombe. Il tema è ben poco originale, siamo stati sommersi da ex-morti di tutte le nazionalità, e per me i migliori sono quelli francesi (Les Revenants).glitch

Ma il punto fondamentale è che si tratta di una produzione australiana.

Prima dei titoli di testa appare questa scritta: Aboriginal and Torres Strait Islander viewers are advised that this program contains voices and images of people who have died, che più o meno significa “Informiamo gli spettatori Aborigeni e delle isole Torres Strait che questo programma contiene voci e immagini di persone decedute”.

Ho quindi scoperto il Sorry Business, ovvero l’insieme di pratiche legate alla morte di un parente o di un membro della comunità. Per gli Aborigeni il lutto è una parte importante della loro cultura, coinvolge intere comunità e si esprime in modi che a noi potrebbero apparire bizzarri. Non solo la partecipazione ai funerali è un atto dovuto, anche a costo di notevoli spostamenti e nonostante gli impegni lavorativi, ma può prevedere atti di autolesionismo, taglio dei capelli e il tingersi la faccia con pigmento bianco. I parenti  possono, per un certo periodo di tempo, vivere in un’area a parte, chiamata “the sorry camp”. Le fotografie e le registrazioni (da qui nasce il cartello di avviso prima di film e spettacoli) del morto, non devono essere mostrate. Si deve evitare il nome del morto, e anche chi ha lo stesso nome, per il periodo del lutto, non viene nominato, ed è invece chiamato Kwementyaye.

Questo modo di affrontare l’evento più difficile della vita, la morte di una persona cara, mi sembra tanto diverso dal nostro, più nascosto e privato. “Andiamo avanti” diciamo. E naturalmente è giusto andare avanti, ma anche loro, gli Aborigeni, vanno avanti, prendendosi però il tempo che serve.  Modificano se stessi, si spostano nei campi del dolore, circondati dagli altri, che si impegnano addirittura a non pronunciare il nome del defunto, e nascondono le immagini che farebbero troppo male.

Evidentemente quindi, alcuni degli attori aborigeni del cast della serie “Glitch”, sono morti e l’avvertimento è un segno di rispetto per le loro comunità.

Mi frullava in testa da un po’, volevo raccontare questa mia scoperta etnoantropologica (che probabilmente era sconosciuta solo a me), anche per stemperare una certa gravezza interiore che mi trascino da tempo. “E ho detto tutto” (cit.)

E non mi si venga a dire che dalla televisione non si impara nulla.

Usi, costumi e maglioni.

Sto vedendo in giro un sacco di foto di maglioni natalizi. Non ho idea da quando esista questa usanza, e ho il sospetto che non esista affatto, almeno in Italia. Credo che sia l’ennesima tracimazione anglosassone, e chissà se prima o poi arriveranno anche i Christmas Crackers dei britannici. La BBC insegna.

DW Xmas

Il grande Capaldi festeggia il Natale con Clara nella linea temporale in cui riesce a invecchiare, pora stella. (Doctor Who, Last Christmas, speciale del 2014).

Il maglione più vicino all’idea di “Christmas pullover” che possiedo è quello nella foto. Mi guardo bene dall’indossarlo, ma lo conservo a imperitura memoria (o almeno finché non se lo mangiano le tarme) di quando, in epoca pre-internet, avevo il tempo e la voglia di lavorare a maglia.

maglione rosso

Buon Natale.